giovedì 31 luglio 2014

Ad un passo dalla celebrità


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Matteo Gentili si guardò allo specchio. Spostò di lato i capelli per cercare di coprire la stempiatura che ogni giorno guadagnava qualche millimetro sulla sua testa crespa. Battè un colpo sul lavandino. Arrivava la carica. La cocaina stava cominciando a fare effetto. Andiamo di là e spacchiamogli in culo. Tra qualche settimana il mondo intero saprà chi sono io e chi sono i MATTI DEL VILLLAGGIO!. Uscì dal bagno con passo svelto e raggiunse i suoi compagni in sala prove.  Marco Susini, meglio noto come il batterista ciccione scaccia fica, lo guardò:
<< Mattè allora ci sei? Io alle 7 devo andare a cena che mamma mi aspetta, se possiamo muoverci..>>
Matteo guardò il batterista con aria colma d'ira.
<< Ascolta Marco a me della tua panza piena e di tua madre e della cena proprio non mi importa una sega. Domani abbiamo un provino alla casa discografica e dobbiamo arrivarci super preparati e carichi! Non rompere il cazzo e comincia a bussare come si deve su quella batteria! Intesi??.>>
Marco si dette un pugno sulla gamba per punizione. Sapeva che doveva stare zitto. Quando Matteo si carica e vuole fare il leader non si può fermare. Ti incenerisce se solo gli dici che devi uscire a rispondere ad una chiamata. Giovanni Lambetti, con una chitarra che penzolava dal collo, soffiandosi i capelli dal viso magro, si diresse verso l’amico che gesticolava con il microfono in mano. Quando gli fu abbastanza vicino gli mise una mano sulla spalla:
<< Mattè, amico mio, cerca di stare tranquillo. Noi 3 siamo una forza della natura. Domani quelli della casa discografica rimarranno a bocca aperta dopo che gli avremo fatto sentire i nostri pezzi. E comunque cerchiamo di non litigare tra di noi, almeno fino a domani.. >>
Il cantante dei MATTI DEL VILLAGGIO cercò gli occhi del suo amico dispersi nella chioma folta e dorata. Prese il braccio che gli circondava il collo.  Si fissò sul tatuaggio di un drago cinese  rosso che percorreva tutta la pelle.
<< C’hai ragione Giova.. mo mi calmo. Dai cazzo diamogli giù con questa musica, abbiamo solo un’ora di prova rimasta!>>
Giovanni tornò alla sua postazione con aria soddisfatta, accese l’amplificatore e fece un gesto di incoraggiamento a Marco che sembrava svenire da un momento all’altro per mancanza di zuccheri. Matteo chiuse gli occhi, strinse il microfono con tutta la forza che aveva in corpo, cominciò a battere lentamente i piedi e spinse un pulsante sulla console principale. Si girò di scatto verso i 2 suoi compagni. Li guardò con occhi intensi e cominciò:
<< Un, due, tre… Un, due, tre..>>

giovedì 24 luglio 2014

Una bravata da film americano

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La mensa era piena di ragazzi. Lunghe file di tavoli percorrevano la grande stanza.  I due neri che servivano avevano la solita faccia scocciata. Le patatine sapevano di olio vecchio di mesi. Fabio guardò Simone sollevando con la forchetta la pasta scotta ai quattro formaggi.
" Ma possibile che in questa cavolo di mensa non c'é mai un pasto decente??!!"
Simone sollevò gli occhi scuri dal piatto e guardò il suo amico:
" Secondo me é proprio una questione che gli Inglesi non sanno fare da mangiare.. Poi figuriamoci quando devono cucinare pasti per centinaia di ragazzi affamati.. "
"Sará, io comunque vado a prendermi una banana.. Almeno quella non la devono cucinare si spera."
Fabio si alzò dalla sedia con aria scocciata. Scuotendo i capelli ricci e aggiustandosi gli occhiali rotondi, si diresse con passo deciso verso i lunghi tavoli dove veniva servito il cibo. Fabio odiava mangiare male, da buon italiano che non aveva mai conosciuto terre lontane, sognava la cara e vecchia pasta al forno di mamma. D'altronde lui nemmeno ci voleva venire in quella cavolo di Inghilterra. Era stata un'idea della mamma di Simone che poi aveva convinto la sua. Una sera a tavola sua madre, guardando il telegiornale e senza distogliere gli occhi dalla televisione,  gli aveva detto:
" Allora Fabio ci vuoi andare in Inghilterra a imparare un pò di inglese? Mi ha chiamato Anna dicendo che organizza tutto lei. Dai che tu e Simone vi divertite lassù."
Simone azzannando la cotoletta, con la bocca piena aveva risposto:
"Va bene. Tanto non saprei che fare qui da solo a casa."
Era pentito di aver dato quella risposta. Li faceva tutto schifo. Nei corsi della mattina lo avevano diviso da Simone e aveva un insegnante stupido e grasso. Ad ogni modo forse  stare a casa sua sarebbe stato ancora piú deprimente. Con quel caldo afoso e senza il suo migliore amico. Cosa avrebbe fatto tutto il giorno? Almeno qui poteva divertirsi con Simone nelle ore libere del pomeriggio. Mentre tornava al tavolo con una banana in mano, pensò  che se proprio dovevano restare in quel posto per altri 10 giorni,  quella trasferta in Inghilterra doveva prendere una piega diversa. Ci voleva qualcosa che rendesse quella vacanza indimenticabile.
Lanciò la banana sul piatto e guardò gli occhi neri di Simone con aria decisa. Si sedette velocemente.

venerdì 18 luglio 2014

Un pretesto per guardare avanti

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Rodolfo Serracchiani si svegliò. Erano le 7, come tutte le mattine. Si stropicciò gli occhi e restò per qualche minuto immobile ad osservare la fioca luce che compariva dalla serranda. Lambert, un pastore tedesco, abbagliava dal giardino ansioso di ricevere la sua colazione, come tutte le mattine. Si alzò dal letto con la lentezza di chi non si aspetta nulla di nuovo dalla giornata. Infilò i freddi piedi nel soffice cuoio delle sue ciabatte. Con passi calibrati e meticolosa precisione si diresse al pentolino del latte. D'un tratto, sentì il rumore acuto di quel motorino che non portava mai nulla di nuovo se non notizie scialbe dal mondo e qualche bolletta arretrata da pagare. Consumò la sua colazione tra il silenzio della camera e il vuoto dei suoi pensieri. Prese le scatola dei biscotti per cani e aprì lentamente la porta che da anni separava i suoi silenzi dal mare di parole della gente. Lambert lo salutò con affetto leccandogli la mano, lui, per tutta risposta, gli lanciò i biscotti nella ciotola. Prese la posta e rientrò frettolosamente in casa. Mentre raggiungeva il divano, i suoi occhi colsero qualcosa di strano: Una lettera. Veniva da Berlino. La aprì con una smorfia di paura e curiosità. Poche righe, scritte con una calligrafia colma di ricordi e duri rimpianti:
 « Ciao Papà, Come credo tu sappia, tra pochi giorni tuo nipote compirà 3 anni. Per il suo compleanno ha espresso un unico desiderio: conoscere suo nonno. Voglio che tu sappia che questo non ha niente a che fare con il nostro rapporto e per quanto mi riguarda spero di non doverti vedere, ma l'amore che provo per mio figlio è troppo grande e credo lui abbia il diritto di conoscere suo nonno se è questo quello che desidera. Nella busta troverai un biglietto d'aereo.
Sonia.»

Una tazza di tè: a volte un solo gesto può cambiarti la vita

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Bastò un tè, e cambiò tutto.
Gli altri lo consideravano un tipo abitudinario. Lui si definiva più un amante dell'equilibrio. Aveva una spiccata passione per la comprensione del proprio corpo e dei suoi meccanismi. Attento ad ogni minimo dettaglio per capire l'insorgere di qualche malattia; meticoloso nel programmare la giornata per avere un giusto equilibrio tra stress e riposo, tra sentimenti e astenia, tra sport e attività sedentarie. Certo questo portava ad una abitudinarietà di notevole rilievo: corsa tre volte a settimana per combattere lo stress, caffè solo la mattina e dopo pranzo, mai più tardi per evitare l'insonnia, e così via; ma se qualcuno gli avesse chiesto se si fosse definito un tipo abitudinario, lui avrebbe risposto che in realtà amava l'avventura, i viaggi e anche divertirsi; semplicemente nella sua vita ordinaria cercava un equilibrio che gli consentisse di sfruttare al meglio le sue potenzialità, di vivere serenamente ogni situazione. Ecco appunto, cercava. Una volta un amico gli aveva detto che forse stava esagerando e che a spassarsela un po’ avrebbe notato come la vita potesse essere molto più divertente. Lui non gli credeva. Pensava di essere felice così, di vivere al massimo.
Quella sera però gli successe di bere un tè. Ecco ovviamente non che l'avesse fatto apposta. Semplicemente, nel buio della cucina, non si accorse che nella scatola della camomilla vi era finita per sbaglio una bustina di tè al mirtillo.

giovedì 17 luglio 2014

L'ultima dose

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Dario Rangella prende il telefono da sotto il letto, con le ultime forze compone il solito numero. Porca puttana ho bisogno di una dose oppure muoio. Il tipo dall’accento calabrese risponde prontamente.
Ok Dario puoi farcela. Adesso devi solo trovare il modo di scendere sulla strada senza che tua moglie ti scopra. Lo hai sempre fatto. Devi farcela; o così o schiatti.

La radio sveglia segna le 6. Il telefonino squilla. La suoneria è sempre quella: odiosa, carica di ansia, di paura. Ibrahim apre gli occhi di soppianto. Il solito brivido gli corre lungo la schiena, appesantisce la testa, le braccia, le gambe, tutto. Il telefonino continua a squillare. Merda, nessuno  è sveglio. Devo rispondere.
Solleva il telefono, risponde palesando il suo respiro affannoso.
« Pronto?»         
« Palazzina 11 b, In via Ulisse Rocchi, al primo piano. Vi aspetta un certo Dario Rangella. Vuole 3 grammi. Alzate le chiappe.»
Ibrahim cerca di chiudere la chiamata, il tasto rosso è difficile da premere. Come al solito il tremore alle mani non si ferma. Ogni minimo gesto sembra pesare una vita.
« Ibrahim sei ancora lì?» Il telefono ancora parla.
« Si.»
« Se tutto va bene oggi è la tua ultima volta. Con i soldi che ci porterete  possiamo liquidare la tua quota.  Non fare stronzate.»
La linea telefonica si interrompe. Un lungo beep scuote i suoi pensieri e le sue speranze.

martedì 10 giugno 2014

Sono un italiano e lavoro fischiettando

Quella simpatia la usava per mascherare i graffi che la vita aveva segnato sulla sua pelle. I rimpianti e le occasioni mancate cercava di nasconderle dietro battute ironiche e nel fischiettare che seguiva il suo passeggio. Aveva dormito pochissimo quei giorni. Ai suoi compagni di lavoro andava dicendo che per lavorare in quel modo, con quella paga, all'età che aveva lui, si poteva solo evitare di pensare, cercando di sorridere e accettando la giornata con spirito di angusta avventura. Una sigaretta dietro l'altra la sua voce si affievoliva con il passare dei giorni e dei pacchetti gettati nell'immondizia. Diceva ai compagni che la voce bassa e rauca lo rendeva più macio. Ci provava con quelle ragazze che lavoravano con lui, si divertiva a fare complimenti a loro direttamente o a qualche parte del loro corpo. Non voleva sembrare in disperato bisogno di ragazze, ma lui era cosí, gli piaceva fare il marpione, gli dava una certa sicurezza. Certo all'età che aveva forse sarebbe stato il caso di smetterla di fare sempre il bambinone, era una cosa che pensava spesso. Ma lui non voleva cambiare, forse perché pensava che ormai era troppo tardi, forse perché alla fine non é che gli dispiacesse essere così, oppure semplicemente perché tanto sapeva di poter dare la colpa agli altri. Si, erano le persone che aveva incontrato nella sua strada che lo avevano reso così. Troppo facile usare questa scusa, lo sapeva, però alla fine era facile da dire e le persone li per li ci credevano anche. Quel lavoro di aiuto cuoco lo aveva trovato grazie ad un suo parente, il marito di sua sorella. Il solito biker rozzo e dalle maniere brusche; un uomo generoso, che nel bisogno lo aveva sempre aiutato.